Prolusione all’apertura annuale dell’Orto Botanico Locatelli a Mestre (Parco della Bissuola), in collaborazione con l’Associazione Eco-Filosofica (già Associazione Filosofica Trevigiana), Maggio 2005.
Dai giardini pensili di Babilonia agli “horti” romani ai boschi sacri dei Druidi, fin dai tempi più antichi l’uomo ha pensato l’architettura dei giardini intesi come un vero e proprio “spazio magico”. Oggi noi moderni solo a fatica possiamo intuire, in parte, il suo significato profondo: per noi uno spazio, vegetale o architettonico, è “magico” quando produce nel nostro animo sensazioni arcane di mistero, quando tocca certe corde dimenticate del nostro senso estetico o vagamente religioso. Per gli antichi, così come per le culture tradizionali, uno spazio è “magico” nel senso pieno e letterale del termine, quando viene concepito e realizzato per fungere, in base a precise caratteristiche strutturali e funzionali, quale luogo d’incontro tra l’umano e il divino. È quindi sinonimo di spazio “sacro” (da “sacer” che significa consacrato a una divinità, ma anche offerto come vittima e perciò maledetto, esecrando, abominevole, infame, ed ha, quindi, una doppia valenza), di luogo della ierofania: la rivelazione del divino. Con questa sfumatura di differenza. Che il “magico” implica una operazione teurgica, una consapevole operazione per catturare e imbrigliare un potere supernaturale ad opera di un sapere esoterico e tradizionale considerato, anch’esso, di origine superiore all’umana, e del quale il sacerdote-mago è in fondo un depositario temporaneo e condizionato, non un padrone assoluto (con l’unica, vistosa eccezione della magia nera).
Se questo è vero; se lo spazio magico – sacrale del giardino nasce come tentativo per propiziare il ristabilimento di un “ponte” fra il piano terrestre e il piano astrale – divino (si ricordi che “pontefice” viene appunto da “pontifex”: colui che getta un ponte), il tutto nella prospettiva olistica di un cosmo vivo in cui nulla è inerte, nulla è separato e trascurabile: ecco allora che nel Labirinto, figura architettonica magico – sacrale per eccellenza, culmina e trionfa il progetto esoterico di un rinnovato sposalizio tra le forze umane e superumane, celesti.
Quando noi percorriamo i viali armoniosi e ordinati di un giardino costruito secondo i dettami di questa sapienza antichissima, ne ritraiamo una indimenticabile sensazione di pace, di serenità, di equilibrio, e al tempo stesso avvertiamo una indefinibile atmosfera di sospensione e di attesa che, nel caso del labirinto vegetale, evoca talvolta la dimensione del numinoso, ma anche, al limite, del pauroso e del “tremendum”.
Il fatto è che esiste una geometria sacra che è fatta di matematica esoterica, di proporzioni perfette e misteriose: la sezione aurea, i numeri di Fibonacci. Una matematica che è già presente nella natura stessa (la sequenza di Fibonacci, ad esempio, è sempre presente nella spirale di nuove foglie che sbocciano lungo il fusto di una determinata pianta) e che il giardino-labirinto evoca e riproduce con puntigliosa precisione. Chi ignora il segreto della sezione aurea, ad esempio, percepisce vagamente il senso di pienezza e di equilibrio che da essa mirabilmente si sprigiona; ma solo l’iniziato, il giardiniere-sacerdote, ne conosce l’esatta origine, il significato e le correlazioni a livello botanico, astronomico e astrologico. Non si tratta di perseguire criteri genericamente estetici; ogni essenza vegetale ha il suo preciso scopo esoterico e propiziatorio; ogni allineamento astrale ha la sua valenza magico – simbolica; ogni fase zodiacale evoca o respinge determinati influssi e determinate forze celesti.
La psicologia moderna, soprattutto junghiana, ha riscoperto questa antica forma di sapienza sotto la forma dell’inconscio collettivo. Il labirinto, allora, non è un semplice gioco della fantasia ma un potente archetipo, un simbolo ancestrale radicato in una verità primordiale che sfida qualsiasi evoluzionismo biologico e qualsiasi riduzionismo materialistico. Il Labirinto torna così ad essere per noi moderni, come lo era per gli antichi, il simbolo di un lungo e difficile cammino d’iniziazione, di una ricerca inesausta del “centro” (l’asse cosmico che non è un luogo materiale ma corrisponde a una sacra geografia interiore). Un vero e proprio “mandala” rimasto volutamente aperto, incompiuto.
Questo intendevano fare gli antichi abitanti dell’isola di Götlan, in Svezia, con i loro imponenti allineamenti di pietre; questo i mosaicisti delle cattedrali medioevali con i loro “chemins à Jérusalem”, che il fedele percorreva inginocchiato e in preghiera, come sostitutivi del pellegrinaggio in terra Santa. Certo poco hanno capito, delle valenze magico – iniziatiche del labirinto, psicologi come W. S. Small ed i suoi epigoni comportamentisti, che lo hanno ridotto al rango di dispositivo per lo studio del comportamento del ratto bianco. Sulla base di “prove ed errori”, l’animale vi impara ad evitare i percorsi ciechi e a raggiungere il cibo per la via più breve. Questa è una degradazione, per non dire una profanazione del sacro archetipo del Labirinto magico – iniziatico; ma tant’è; ogni epoca ha la scienza che si merita e ogni scienza esprime l’orientamento culturale che la mette a battesimo.
Lasciamo i comportamentisti ai loro tristi esperimenti e rivolgiamo invece un grato pensiero ai sacerdoti-architetti mesopotamici, cretesi, celti, medievali e rinascimentali che hanno elaborato le forme del Labirinto vegetale come duplice ponte verso la dimensione celeste e verso la dimensione interiore; che sono poi, in fondo – secondo la Tradizione iperborea – due maniere diverse di esprimere, anzi di balbettare, cioè di tentar di esprimere, una sola ed unica realtà ultima.
Pensiamo, per esempio, a quei druidi che hanno progettato, estratto, trasportato ed eretto grandiose architetture megalitiche, profondendovi un immane patrimonio d’intelligenza, di spiritualità, di lavoro fisico apparentemente non remunerativo. Oppure pensiamo ai maestri comacini, a quei costruttori di cattedrali che, in un linguaggio iniziatico (argotico, per dirla con Fulcanelli, da cui deriva “arte gotica”) hanno innalzato verso il cielo quelle stupefacenti montagne di pietra in cui ogni singolo elemento ha una sua funzione non solo statica, ma sapienziale; in cui tutto parla, tutto vive: dalle guglie più ardite all’ultima vetrata e all’ultima scultura che adorna i portali o il pulpito o i capitelli delle colonne e dei pilastri.
Meditazione, preghiera, ritorno alla vera casa “in interiore hominis”. Questo è anche il senso riposto del labirinto: ricerca inesausta della realtà altra, cammino iniziatico dai tempi lunghi e solenni, dunque tempo sacro oltre che luogo sacro, contrapposto allo spazio-tempo profano; nostalgia sublime di una perduta saggezza, di una perduta armonia, di una perduta – ma forse non per sempre – comunione magica col grande Tutto.