Wa eç-çaffati çaffan,
Faz‑zajirati zajran,
Fat‑taliyati dhikran…
«Per coloro che sono schierati in ordine,
E che cacciano respingendo,
E che recitano l’invocazione.»..
Corano, xxxvii, 1‑3.
Si parla spesso, in varie tradizioni, di un linguaggio misterioso chiamato «lingua degli uccelli»: designazione evidentemente simbolica, poiché l’importanza stessa attribuita alla conoscenza di questo linguaggio, come prerogativa di un’alta iniziazione, non permette di prenderla alla lettera. Si legge nel Corano: «E Salomone fu l’erede di David; e disse: «O uomini! siamo stati istruiti al linguaggio degli uccelli (ullimna mantiqat‑tayri) e colmati di ogni cosa..».” (xxvii, 15). Altrove, si vedono eroi vincitori del drago, come Sigfrido nella leggenda nordica, comprendere subito dopo il linguaggio degli uccelli; e ciò permette di interpretare agevolmente il simbolismo in questione. Infatti, la vittoria sul drago ha per conseguenza immediata la conquista dell’immortalità, raffigurata da qualche oggetto al quale il drago impediva di avvicinarsi; e tale conquista dell’immortalità implica essenzialmente la reintegrazione nel centro dello stato umano, cioè nel punto in cui si stabilisce la comunicazione con gli stati superiori dell’essere. Appunto questa comunicazione viene rappresentata dalla comprensione del linguaggio degli uccelli; e, di fatto, gli uccelli sono presi di frequente come simbolo degli angeli, vale a dire precisamente degli stati superiori. Abbiamo avuto occasione di citare altrove [1] la parabola evangelica in cui si parla, in questo senso, degli «uccelli del cielo» che vengono a posarsi sui rami dell’albero, di quello stesso albero che rappresenta l’asse che passa per il centro di ogni stato dell’essere e congiunge tutti gli stati fra di loro [2].
Nel testo coranico che abbiamo riprodotto in epigrafe, il termine “eç-çaffat designa letteralmente gli uccelli, ma si applica simbolicamente agli angeli (el‑malaikah); e così il primo versetto significa la costituzione delle gerarchie celesti o spirituali [3]. Il secondo versetto esprime la lotta degli angeli contro i demòni, delle potenze celesti contro le potenze infernali, cioè l’opposizione tra gli stati superiori e gli stati inferiori [4]; è, nella tradizione indù, la lotta dei Deva contro gli Asura, e anche, secondo un simbolismo del tutto simile a quello di cui ci occupiamo, il combattimento del Garuda contro il Naga, nel quale ritroviamo del resto il serpente o il drago di cui s’è parlato un momento fa; il Garuda è l’aquila, e, altrove, è sostituito da altri uccelli come l’ibis, la cicogna, l’airone, tutti nemici e distruttori dei rettili [5]. Infine, nel terzo versetto, si vedono gli angeli recitare il “dhikr”, la qual cosa, nell’interpretazione più consueta, si deve intendere riferita alla recitazione del Corano; non, beninteso, del Corano espresso in linguaggio umano, ma del suo prototipo eterno iscritto sulla «tavola custodita» (el‑lawhul‑mahfuz), che si estende dai cieli alla terra come la scala di Giacobbe, e quindi attraverso tutti i gradi dell’Esistenza universale [6]. Parimenti, nella tradizione indù, è detto che i Deva, nella loro lotta contro gli Asura, si protessero (achhan dayan) con la recitazione degli inni del Veda, e che per questa ragione gli inni ricevettero il nome di “chhanda”, parola che designa propriamente il «ritmo». La stessa idea è d’altronde contenuta nella parola “dhikr”, che si applica, nell’esoterismo islamico, a formule ritmate corrispondenti esattamente ai “mantra” indù, formule la cui ripetizione ha lo scopo di produrre un’armonizzazione dei diversi elementi dell’essere, e di determinare vibrazioni suscettibili, con la loro ripercussione attraverso la serie degli stati, in gerarchia indefinita, di aprire una comunicazione con gli stati superiori, che è d’altronde, in generale, la ragione d’essere essenziale e primordiale di tutti i riti.
Quanto sopra ci riporta direttamente a quel che dicevamo all’inizio sulla «lingua degli uccelli» che possiamo anche chiamare «lingua angelica», e la cui immagine nel mondo umano è il linguaggio ritmato, poiché proprio sulla «scienza del ritmo», che comporta d’altronde molteplici applicazioni, si basano in definitiva tutti i mezzi che si possono usare per entrare in comunicazione con gli stati superiori. Per questa ragione una tradizione islamica dice che Adamo, nel Paradiso terrestre, parlava in versi, cioè in linguaggio ritmato; si tratta di quella «lingua siriaca» (loghah suryaniyah) di cui abbiamo parlato nel nostro precedente studio sulla «scienza delle lettere», e che si deve considerare la traduzione diretta dell’«illuminazione solare» e «angelica» quale si manifesta al centro dello stato umano. È anche la ragione per la quale i Libri sacri sono scritti in linguaggio ritmato, linguaggio che ne fa ben altro che quei semplici «poemi» nel senso puramente profano che vuol vedervi il partito preso antitradizionale dei «critici» moderni; e d’altronde la poesia, originariamente, non era quella vana «letteratura» che è diventata per una degenerazione che trova la sua spiegazione nel cammino discendente del ciclo umano, e aveva un vero e proprio carattere sacro [7]. Se ne possono ritrovare le tracce sino all’antichità classica occidentale, ove la poesia era ancora chiamata «lingua degli Dèi» espressione equivalente a quelle da noi indicate poiché gli «Dèi», vale a dire i Deva [8] sono, come gli angeli, la rappresentazione degli stati superiori. In latino, i versi erano chiamati “carmina”, designazione che si riferiva al loro uso nella celebrazione dei riti, dal momento che la parola “carmen” è identica al sanscrito «Karma», che deve essere preso qui nel suo senso speciale di «azione rituale» [9]; e il poeta stesso, interprete della «lingua sacra» attraverso la quale traspare il Verbo divino, era «vates», termine che lo caratterizzava come dotato di un’ispirazione in qualche modo profetica. Più tardi, per un’altra degenerazione, il «vates» non fu più che un volgare «indovino» [10], e il «carmen» (da cui la parola francese «charme») un «incantesimo», cioè un’operazione di bassa magia; ecco ancora un esempio del fatto che la magia, e persino la stregoneria, è quanto sussiste come ultimo vestigio delle tradizioni scomparse.
Pensiamo che queste poche indicazioni basteranno a mostrare quanto abbiano torto coloro che si fanno beffe dei racconti in cui si parla della «lingua degli uccelli»; è veramente troppo facile e troppo semplice liquidare come «superstizioni» tutto quel che non si capisce; ma gli antichi, da parte loro, sapevano assai bene cosa dicevano quando impiegavano il linguaggio simbolico. La vera e propria «superstizione», nel senso strettamente etimologico (quod superstat), è ciò che sopravvive a se stesso, vale a dire, in una parola, la «lettera morta»; ma questa stessa conservazione, per quanto possa sembrare poco degna d’interesse, non è tuttavia così disprezzabile, poiché lo spirito, che «soffia dove vuole» e quando vuole, può sempre rivivificare i simboli e i riti, e restituir loro, con il senso perduto, la pienezza della virtù originale.
[1] L’Homme et son devenir selon le Vedanta, cap. III
[2] Nel simbolo medioevale del “Peridexion” (corruzione di “Paradision”), si vedono gli uccelli sui rami dell’albero e il drago ai suoi piedi (si veda “Le Symbolisme de la Croix”, cap. ix). In uno studio sul simbolismo dell’«uccello del paradiso» («Le Rayormement intellectuel», maggio‑giugno 1930), L. Charbonneau‑Lassay ha riprodotto una scultura in cui quest’uccello è raffigurato unicamente con una testa e un paio d’ali, forma sotto la quale sono spesso rappresentati gli angeli
[3] La parola “çaff”, «rango», è una di quelle, numerose d’altronde, nelle quali taluni han voluto trovare l’origine dei termini “çufi” e “taçawwuf”; per quanto questa derivazione non sembri accettabile dal punto di vista puramente linguistico, è pur vero che, al pari di molte altre dello stesso genere, essa rappresenta una delle idee contenute realmente in questi termini, poiché le «gerarchie spirituali» s’identificano essenzialmente con i gradi dell’iniziazione
[4] Questa opposizione si traduce in ogni essere con quella delle due tendenze ascendente e discendente, chiamate “sattwa” e “tamas” dalla dottrina indù. È anche ciò che il mazdeismo simboleggia per mezzo dell’antagonismo della luce e delle tenebre, personificate rispettivamente in Ormuzd e Ahriman
[5] Si vedano, a questo proposito, i notevoli lavori di Charbonneau‑Lassay sui simboli animali del Cristo. È importante notare che l’opposizione simbolica dell’uccello e del serpente si applica solo quando quest’ultimo è considerato sotto il suo aspetto malefico; al contrario, sotto il suo aspetto benefico, esso si unisce talora all’uccello, come nella figura del Quetzalcohuatl delle antiche tradizioni americane; del resto anche nel Messico troviamo il combattimento dell’aquila contro il serpente. Per l’associazione dell’uccello con il serpente, si può richiamare il testo evangelico: «Siate dolci come colombe e prudenti come serpi» (Matteo, x, 16)
[6] Sul simbolismo del Libro, a cui ciò si riferisce direttamente, si veda “Le Symbolisme de la Croix”, cap. xiv
[7] Si può dire d’altronde, in linea di massima, che le arti e le scienze sono diventate profane appunto per tale degenerazione, che le ha spogliate del loro carattere tradizionale e, quindi, di ogni significato d’ordine superiore; ci siamo spiegati su quest’argomento nell’“Esotérisme de Dante”, cap. II, e nella “Crise du monde moderne”, cap. IV
[8] Il sanscrito Deva e il latino Deus sono la stessa identica parola
[9] La parola «poesia» deriva anch’essa dal verbo greco “poiein”, che ha lo stesso significato della radice sanscrita “Kri”, da cui viene Karma, e che si ritrova nel verbo latino “creare” inteso nella sua accezione primitiva; all’origine, si trattava dunque di tutt’altro che della semplice produzione di un’opera artistica o letteraria, nel senso profano che Aristotele sembra aver avuto unicamente presente parlando di quelle che ha chiamato «scienze poetiche»
[10] La stessa parola «indovino» è altrettanto deviata dal suo senso, poiché etimologicamente non è altro che “divinus”, qui col significato di «interprete degli dèi». Gli «auspici» (da “aves spicere”, «osservare gli uccelli»), presagi tratti dal volo e dal canto degli uccelli, sono in special modo da accostare alla «lingua degli uccelli», intesa allora nel senso più materiale, ma comunque identificata ancora con la «lingua degli dèi» poiché si riteneva che questi ultimi manifestassero la loro volontà tramite tali presagi. Gli uccelli svolgevano così una funzione di «messaggeri» analoga a quella generalmente attribuita agli angeli (donde il loro stesso nome, giacché questo è l’esatto significato della parola greca “angelos”), benché considerata in un aspetto assai inferiore
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